Donne e lavoro, l'onda lunga del riflusso

08 -03-2012

Partiamo dal tasso di natalità. In Italia è pari a 1,41 figli per donna, tra i più bassi d’Europa. Anche l’occupazione femminile riporta dati scoraggianti: solo il 46,2 per cento delle donne residenti nel nostro paese lavora, contro il 67,6 per cento degli uomini, e lo fa a condizioni che spesso non permettono la realizzazione del progetto di vita desiderato. Rinunciare alla carriera non facilita le nascite. Tutt’altro: il rapporto tra l’insufficiente o cattiva qualità dell’occupazione e il calo della maternità è direttamente proporzionale.

 Per esporre un quadro generale della condizione femminile nel mercato del lavoro in Italia, si può cominciare da questi dati, che da soli basterebbero a esprimere il ripiegamento nelle retrovie di un paese sempre più arido e incapace di futuro. “La mancanza reale di prospettive rende le donne più insicure, timorose di perdere quel poco che sono riuscite a ottenere in campo lavorativo – commenta Giovanna Altieri, direttrice dell’Istituto di ricerche politiche e sociali (Ires) della Cgil, presso cui svolge attività di studio sulle politiche per l’occupazione e sul mercato del lavoro –. Per questo preferiscono non rischiare, rinunciando a quei cambiamenti che potrebbero compromettere ulteriormente la loro situazione”.

 Gli effetti della crisi economica in atto hanno ulteriormente pregiudicato l’instabilità lavorativa delle donne. Le tendenze degli ultimi 4 anni descrivono il crollo dell’occupazione, sia femminile che maschile, unito all’aumento della disoccupazione e dell’inattività. Ad essere penalizzate sono soprattutto le donne. Secondo i dati Istat, nell’ultimo trimestre del 2011 il tasso di disoccupazione femminile è infatti aumentato rispetto all’anno precedente, raggiungendo 9,9 punti percentuali. Il numero di donne disoccupate è aumentato del 5,2 per cento su base annua. Il tasso di disoccupazione maschile si attesta, invece, al 7,6 per cento.

 La crescita del numero di lavoratrici, avvenuta tra il 1996 al 2008, ha dunque subito un progressivo declino, con andamenti drammatici soprattutto nel Sud Italia. Qui le donne impiegate in un’attività sono soltanto il 30,8 per cento, contro il 55,6 per cento del Nord Ovest e il 56,9 per cento del Nord Est. Tale arresto complessivo si è abbattuto come una scure su tutti i rapporti contrattuali, dal tempo determinato a quello indeterminato. Crescono, invece, il lavoro a chiamata e intermittente, sintomo di una precarizzazione del legame tra dipendente e impresa. La condizione di inattività, propria di chi non partecipa al mercato del lavoro, riguarda il 37,8 per cento della popolazione italiana, rispetto a una media europea pari a circa il 9 per cento in meno.

 La percentuale di donne inattive è del 48,9, con punte che raggiungono il 63,7 per cento a Sud, conto il 40,7 per cento del Centro Nord. Gli uomini che soffrono tale condizione sono il 26,8 per cento. “In un contesto in cui nemmeno il lavoro degli uomini è più al riparo – commenta ancora Altieri –, bisognerebbe capire che creare migliori opportunità occupazionali costituirebbe un valore economico e sociale per l’intera collettività. Oggi la possibilità di mantenere costanti i livelli di consumo si lega alla facoltà delle famiglie di poter contare su due stipendi. I rischi che corrono i nuclei monoreddito in cui, nella quasi totalità dei casi sono le donne a non lavorare, possono portare a tagli sulla spesa anche molto rilevanti”.

 Nel 37,2 per cento delle coppie in cui la donna ha un’età compresa tra i 25 e i 54 anni, resiste una suddivisione dei compiti di tipo tradizionale, in cui l’uomo lavora fuori casa, e la donna si dedica alle faccende domestiche. Altrove, in Svezia ad esempio, solo il 10 per cento delle famiglie adotta questo tipo di ripartizione delle mansioni. Il 69,5 per cento delle coppie italiane, in ogni caso, preferirebbe un modello in cui entrambi lavorano fuori casa. Sulla questione incide negativamente la mancanza di politiche di welfare che sollevino le donne dal compito di cura e assistenza in ambito familiare, consentendo loro di poter dedicare tempo ed energie a una professione.

 “Offrire servizi idonei – osserva Altieri – comporterebbe come effetto immediato la riduzione delle incombenze che abitualmente sono di competenza femminile. Senza contare che ciò creerebbe occasioni di lavoro di cui proprio le donne potrebbero avvantaggiarsi”. Per le donne italiane la conciliazione tra vita privata e lavorativa si ottiene a costo di rinunce e di un notevole affanno quotidiano. Il 17,7 per cento delle donne, senza distinzione tra Centro Nord e Meridione, ritiene che i modi e i tempi dell’organizzazione del lavoro costituiscano un limite al loro inserimento occupazionale.

  Oltre al problema della carenza di posti di lavoro che coinvolge la popolazione italiana nel suo complesso, le donne indicano come ulteriori ostacoli la mancanza di servizi e di sostegni economici alle famiglie. A livello normativo, la legge n. 53 dell’8 marzo 2000 promuove l’istituzione di congedi parentali che coinvolgano di più i padri, appoggia la flessibilità degli orari di lavoro, esorta gli enti locali ad attuare politiche attive che rendano più semplice, per le donne, conciliare i tempi da dedicare al lavoro, alla famiglia e alla formazione professionale. Nella realtà, però, la mancanza di interventi pubblici, unita a un’impostazione culturale che vede i maschi italiani ancora poco collaborativi in ambito domestico, sovraccarica le donne di responsabilità, sia dentro sia fuori casa.

 L’Istat calcola che il 77,1 per cento del tempo dedicato alle occupazioni domestiche e familiari è affidato alle donne. La percentuale scende appena al 73,8 per cento nel caso in cui si tratti di una lavoratrice impegnata fuori casa. “Tutto il lavoro più impegnativo di cura familiare e domestica grava su di noi – sostiene Altieri –. Questo rende molto più difficile non solo l’inserimento nel mercato del lavoro, ma anche la possibilità di far carriera. È ancora molto radicato lo stereotipo di genere, secondo il quale se sei donna, e dunque potenzialmente madre, sei meno adatta a ruoli di responsabilità”. Sono ancora numerose le donne che dipendono economicamente dagli uomini. In parte perché disoccupate o inattive, in parte perché vengono pagate poco o meno dei colleghi maschi.

 Soprattutto in alcuni settori, a parità di mansione, le donne percepiscono una retribuzione inferiore a quella degli uomini. Nel campo delle attività immobiliari, dell’informatica e dei servizi alle imprese, lo stipendio di una lavoratrice può arrivare a pesare il 30,3 per cento in meno. Nell’industria manifatturiera e nelle attività di intermediazione monetaria, la differenza va dal 18 al 20 per cento. Tale discriminazione è presente, sebbene in misura più contenuta, anche nel settore pubblico. In questo ambito, le dipendenti possono ricevere una busta paga più misera del 6,7 per cento.

 La disparità di trattamento economico è maggiormente diffusa nelle fasce meno scolarizzate della popolazione femminile. Questo incide negativamente anche sulla qualità del lavoro. Al Sud, per esempio, il tasso di instabilità occupazionale è del 33,8 per cento per le donne che si sono fermate alla licenza media (al Nord questo valore raggiunge il 12,1 per cento), contro il 15 per cento degli uomini con pari livello di istruzione. La percentuale tende a dimezzarsi quando le donne completano il ciclo di studi superiori. Dunque non sono soltanto la disoccupazione e la condizione di inattività a impedire l’indipendenza delle donne, ma anche un pregiudizio che le discrimina in quanto lavoratrici. “Si tratta di uno scenario mai abbandonato nel nostro paese – sottolinea Altieri –. Rispetto agli uomini le donne sono più coinvolte in forme di lavoro a scarsa tutela e con remunerazioni povere. Cresce la quota di italiane con contratti part time. Ma ciò, lungi dal favorire una migliore conciliazione tra vita privata e lavorativa, rappresenta invece uno dei tanti squilibri sorti per effetto della recessione”.

 Nella maggior parte dei casi si tratta di un tempo parziale involontario, che non offre garanzie di stabilità e di rispetto dei diritti. Se si lavora mezza giornata è perché non si è riuscite a trovare un impiego a tempo pieno. Nel Centro Nord si calcola che la volontarietà del part time riguardi circa il 50 per cento delle donne, mentre al Sud questo valore è di 20 punti inferiore. Per quanto riguarda le condizioni delle giovani generazioni, il tasso di occupazione femminile è del 35,4 per cento, contro il 48,6 per cento di quello maschile. Solo per le laureate il rapporto con i colleghi tende a pareggiarsi. Nella fascia di età che va dai 18 ai 29 anni rispetto a una situazione generale di mancanza di olavoro, non esistono forti disparità dipendenti dal sesso.

 “Maschi e femmine sono ugualmente svantaggiati – osserva Altieri –. Anzi: nelle fasce più scolarizzate, le ragazze sono in genere favorite in quanto dimostrano di avere una migliore preparazione. I problemi sorgono dopo, in occasione della maternità”. Quando poi riescono a trovare lavoro, le giovani donne ottengono contratti a tempo determinato nel 34,8 per cento dei casi. I giovani nel 27,4 per cento. La differenza è ancora più significativa se il rapporto di lavoro è a tempo parziale, una condizione che riguarda il 31,2 per cento delle donne contro il 10,4 per cento degli uomini. Il 64 per cento delle giovani, però, esprime il carattere decisamente non volontario di questo vincolo orario.

 E allora come fare per risolvere questo gap? “Se non vi è una ripresa della domanda – risponde Altieri –, non sarà possibile avere un mercato inclusivo. È necessario creare lavoro di qualità. Bisogna costruire percorsi di continuità occupazionale per le donne, attraverso politiche attive e un potenziamento del welfare. C’è una grande operazione culturale da affrontare, che riguarda l’educazione all’uguaglianza di genere, fin dai primi anni di età dei bambini. È un tema da trattare a scuola, ma anche all’interno della famiglia, perché siamo tutti individualmente coinvolti”.


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