Questa nostra discussione colma un vuoto. Un deficit di attenzione sulle questioni che riguardano il sud e il suo sviluppo, che emerge dal dibattito nazionale, da come i media tendono ad accendere i riflettori spesso sulle negatività o sui drammi che attraversano il sistema produttivo, come è accaduto questa estate sull’ILVA, ma non invece sulle strategie da seguire per recuperare i differenziali di sviluppo che separano il sud dal resto del Paese. Non voglio spingermi a sostenere che la crisi picchia più al sud che al nord. Non serve in questo momento storico stilare classifiche del disagio. Oltretutto si potrebbero alimentare contrapposizioni che non solo non sono utili e che contrasterebbero con un'idea di sviluppo del Paese, che sappia imprimere una svolta e favorire il superamento della logica della contrapposizione, che tanti danni ha procurato durante l'epoca berlusconiana. La crisi e la recessione mettono a nudo comunque i problemi strutturali del Paese. Evidenziano i limiti del modello di sviluppo. Accentuano le differenze che non si può negare esistono fra nord e sud. E se guardiamo al modo in cui si contribuisce alla formazione del PIL, uno dei differenziali sta proprio al modo in cui contribuiscono i settori produttivi. Nell’apporto che dà l’industria al sud di sicuro più basso. Da chi viene occupato questo spazio? In parte dai servizi, ma fondamentalmente dall’agricoltura, che al sud continua a rappresentare un settore ancora decisivo. Non sono fra quelli che sostengono che un maggior peso dell’agricoltura costituisce un fattore di arretratezza o di scarsa modernità. Il problema sta invece nel deficit di organizzazione della produzione non sempre orientata verso la concentrazione dell’offerta e la trasformazione. Ci troviamo spesso di fronte ad un settore che anche nelle aree più evolute non rende la percezione della ricchezza e dell’occupazione prodotta. Per l’esposizione eccessiva alle fluttuazioni dei mercati che colpiscono fondamentalmente le produzioni ortofrutticole, indubbiamente meno protette di quelle continentali da parte di una PAC, che sarebbe auspicabile ponesse maggiore attenzione allo sviluppo qualitativo delle produzioni. Ma anche per la propensione da parte delle imprese a pretendere compensazioni sul piano di una maggiore flessibilità nel rispetto delle regole, spesso violate, con la tendenza ad alimentare quella cultura della illegalità, che specie nell’utilizzo della manodopera, trova la sua massima espressione. Dobbiamo dare atto alla FLAI della tenacia con cui su questi temi conduce la sua iniziativa, in un clima spesso ostile e di preoccupante assenza dello Stato e delle Istituzioni, come è avvenuto questa estate nel Salento e in provincia di Foggia. Eppure l'esperienza sta dimostrando che dove l’agricoltura è riuscita a venir fuori da questo circolo vizioso e penso al settore della pasta e dei prodotti da forno, delle conserve, del caseario, della trasformazione olearia e vitivinicola, registriamo passi avanti importanti, sul terreno della specializzazione produttiva e del rapporto fra produzione e trasformazione. E’ la dimostrazione che il nostro sistema manifatturiero può arricchirsi di nuovi apporti determinati dalla valorizzazione del territorio e delle sue risorse autoctone. Che può alimentarsi e svilupparsi in sinergia con lo sviluppo della capacità attrattiva di una regione come la Puglia in termini di flussi turistici che preferiscono un territorio che sa valorizzare le sue risorse culturali, ambientali, paesaggistiche, la cultura, le tradizioni, i beni della propria terra. E non è un caso che questo mese di agosto, mentre impazzava sui media la vicenda dell’ILVA, il Salento e il Gargano, ma tutta la Puglia, registrava record di presenze di turisti non solo italiani. E mentre il 17 agosto in un clima di grande tensione, scendevano a Taranto Passera e Clini, per sancire la presenza del Governo su una vertenza che non può che considerarsi nazionale, nello stesso giorno un flusso interminabile di giovani affluiva verso Melpignano, per lasciarsi travolgere dai ritmi frenetici della notte della Taranta. Ciò dimostra come al sud comincia ad emergere in maniera evidente un contrasto stridente, fra modelli di sviluppo che tendono a contrapporsi, ma che bisognerebbe rendere concilianti. Ormai c’è da prendere atto, e ritengo con favore, che al sud non è più accettata l’idea che vada bene tutto, purché dia occupazione. E’ la cultura che si è affermata sin dagli anni ’50, basata sullo scambio occupazione contro accettazione di un’industria dall’impatto devastante sul fronte ambientale. E così ci hanno propinato di tutto e di più. Non è un caso che in Puglia ci ritroviamo con l’ILVA a Taranto e la centrale Enel a Brindisi che sono ai primi posti dell'elenco delle 50 aziende più inquinanti d’Europa, collocate proprio in aree dove più alto è lo squilibrio fra domanda e offerta di lavoro. Con questo non voglio di certo criminalizzare le scelte compiute con i poli di sviluppo. Che hanno rappresentato una risposta a migliaia di lavoratori meridionali che altrimenti sarebbero emigrati o avrebbero vissuto senza l’opportunità che l’industria ha offerto di costruire coscienze, emancipazione, modernità, valorizzazione del lavoro e della dignità delle persone. Su questo versante bisogna prendere le distanze dai denigratori incalliti che tendono ad evidenziare solo le ricadute negative che ne sono derivate. Ma è un tempo che non c’è più. Le popolazioni hanno maturato una nuova coscienza, anche per le maggiori conoscenze che hanno recuperato. Per le battaglie che abbiamo fatto per far funzionare gli organi di controllo. Nel 2003 in Puglia non c’era neanche l’ARPA e fino al 2005 non c’erano strumenti per misurare le emissioni di diossina nell’impianto siderurgico a Taranto. Questa maggiore coscienza rende ormai inaccettabile lo scambio. Una maggiore consapevolezza che coinvolge anche i lavoratori, i quali non possono essere messi di fronte al dilemma se è meglio morire lavorando, che vivere da disoccupati I lavoratori sono i soggetti più esposti al rischio. Sono coloro su cui si verifica in maniera più evidente il nesso di causalità fra l’inquinamento e le morti per tumore che si vanno registrando. La crescita di queste sensibilità io ritengo che sia un bene e può rappresentare uno stimolo ad affrontare la sfida della sostenibilità. Per questo non vanno bene da parte nostra posizioni di arroccamento e difensivistici dell’occupazione a prescindere. Il diritto alla vita è un diritto che non va messo di certo in contrapposizione al diritto al lavoro, ma conciliabile e comunque riconosciuto. Altrimenti a Taranto, come a Brindisi bisogna trovare il modo perché non finisca per prevalere l’idea che per risolvere il conflitto basta smantellare tutto. Ma per riuscirci, bisogna partire dal presupposto che serve una svolta e una netta frattura con tutto quanto è avvenuto nel passato. E se serve a riunificare i corni del conflitto, anche qualche nostra autocritica non guasterebbe. E’ una partita che non può vedere il Governo nazionale esercitare la funzione dell’arbitro, ma deve scendere in campo per giocarla fino in fondo. La crescita passa anche da qui. Dalla riconversione del nostro apparato produttivo in termini qualitatitivi e di sostenibilità. Se è vero che la siderurgia è essenziale e insostituibile, pena l’indebolimento del sistema industriale e che la Puglia debba continuare a produrre energia per due volte e mezzo il suo fabbisogno, lo Stato non può stare a guardare. Si intervenga sulle bonifiche, per alleviare i carichi, per rassicurare i cittadini, per rendere credibile un percorso di sostenibilità. La mancanza di una politica industriale di certo non aiuta. Così come non aiuta la mancanza di un piano energetico nazionale che non solo metta ordine nel settore, ma che faccia scelte nette. Sul fronte dell’energia io credo che si stia affermando un’idea che risulta in controtendenza rispetto all’esigenza di rafforzare la produzione da fonti rinnovabili, per sostituire quella derivante da fonti fossili. Destano qualche preoccupazione affermazioni come quelle del ministro Passera del tipo: “petrolio vuol dire sviluppo”. Si rafforzino invece le reti di distribuzione dell’energia, per fare in modo che quella prodotta da fonti rinnovabili possa essere veicolata ed utilizzata; si incentivi la realizzazione di piccoli impianti finalizzati all’utilizzo diretto di energie rinnovabili, come si sta facendo in altri Paesi. Il petrolio non può rappresentare la prospettiva. Certo, per un Paese come il nostro la ricerca del petrolio è considerata come la via dell’oro, ma ciò non può essere valido sempre, se è vero che bisogna operare per ridurre la dipendenza. A regime, l’estrazione di petrolio dalla Basilicata raggiungerà la quantità di greggio che ora importiamo dalla Libia. Greggio estratto in Basilicata, ma che attraverso oleodotti arriva al porto di Taranto per essere immesso sulle petroliere. Quello dei nuovi impianti di Tempa Rossa sarà raffinato dall’Eni, quindi contribuirà ad appesantire i carichi ambientali su Taranto. E come se non bastasse, si autorizzano le ricerche in Adriatico, a largo delle Tremiti, con effetti devastanti su un patrimonio marino invece da tutelare. La Puglia ha già dato e non è disponibile ad accettare altro! Abbiamo invece bisogno di uno Stato che recuperi una sua funzione non solo in termini di politiche, ma anche di sostegni diretti per bonificare, per riconvertire le industrie presenti in chiave di sostenibilità. Abbiamo bisogno di un Governo nazionale che oggi più che mai, come sostiene il nostro Segretario Generale, deve ritornare ad intervenire in maniera diretta per sostenere il sistema produttivo, ma fondamentalmente e a maggior ragione per favorire la riconversione in termini di sostenibilità dell’apparato produttivo. Un’operazione che deve passare attraverso un rafforzamento degli strumenti di democrazia partecipata, per fare in modo che i cittadini, che tendono a porsi come nemici dell’industria, vengano recuperati ad un ruolo di protagonisti del processo di riconversione. In Puglia abbiamo l’esperienza di un Governo regionale che non è stato a guardare, ha messo in campo politiche industriali che perlomeno hanno attutito gli effetti della crisi. E il manifatturiero ne ha giovato. Tutti i processi di investimento orientati verso l’innovazione sono passati attraverso contratti di programma che hanno messo in campo risorse e attivati nuovi posti di lavoro. Se settori come la meccatronica, l’automotive, l’aerospazio, la farmaceutica hanno conosciuto livelli forti di ripresa produttivo e contribuito a far impennare le esportazioni è perché la Regione ha svolto una grande funzione in termini di propulsione e di sostegno. E’ la dimostrazione che l’innovazione paga. Persino i settori più maturi o meglio maggiormente esposti alla competizione e livello globale, come il calzaturiero, laddove ci si è orientati verso la riconversione come è accaduto nel distretto di Barletta i risultati ci sono stati. E lo stesso dicasi per pezzi del façonismo dell’abbigliamento del Salento. Permangono situazioni di crisi in settori come il mobile imbottito e lo stesso TAC, dove abbiamo perso negli ultimi anni almeno 20 mila posti di lavoro, in tanti sono affluiti nel limbo degli ammortizzatori sociali in deroga. Ecco perché diventa indifferibile la definizione dell’accordo di programma sul mobile imbottito, che si spera possa incanalarsi sulla via dell’epilogo. Ma sono stati messi in campo risorse anche per le piccole imprese attraverso i PIA, che però non hanno avuto lo stesso successo. La dimensione di impresa non aiuta. Manca un apporto di tipo manageriale. Manca l’apporto in termini di conoscenza e capacità di produrre innovazione. Ma attenzione, perché una parte consistente della forza lavoro occupata la troviamo proprio in questa tipologia di impresa. Si può pensare che il limite alla crescita e alla competitività stia nella scarsa produttività del lavoro? Solo chi non conosce la realtà o finge di non conoscerla può pensare che nelle piccole imprese ci sia un limite di questo tipo. Laddove il lavoro è spremuto all’insegna dello scambio con i diritti e dove vige la leva del comando unilaterale da parte dell’impresa, cosa vuoi ottenere di più in termini di produttività? Lasciano interdetti e fanno pure incazzare affermazioni di fonte governativa rispetto alla disponibilità a concedere più soldi ai lavoratori in cambio di una maggiore produttività. Come se non si sapesse che nelle piccole imprese i fattori che regolano la produttività sono spesso riferiti a situazioni che prescindono dal lavoro e ciò vale ancora di più al sud. A parità di costo del lavoro, di regime di orari, di organizzazione del lavoro, livello di innovazione, un’impresa del sud ha una produttività inferiore a quella del nord. Perché? Perché ad incidere sono fattori esterni all’impresa: le infrastrutture, i servizi, il costo dell’energia e l’efficienza delle reti, il credito, la P.A. Ecco perché il Governo non se la può cavare con gli appelli, serve una svolta. Il sud ha bisogno di una svolta. Ha bisogno di crederci. Il Piano del Lavoro che la Cgil propone aiuta a sostenere il cambiamento che i meridionali devono essere capaci di darsi.