Stop caporalato! La Puglia va alla guerra contro il lavoro nero e lo sfruttamento

19 -08-2013

E’ sceso in Puglia anche il ministro Cecile Kyenge, per vedere con i suoi occhi gli schiavi del terzo millennio. Un blitz all'ex masseria Boncuri, nell’agro di Nardò, luogo simbolo dello sfruttamento degli immigrati impiegati nella raccolta delle angurie e dei pomodori, lì dove due anni fa c’è stato il primo clamoroso sciopero dei braccianti contro i caporali. Ne parlarono tutti i media: Yvan Sagnet, tra i promotori di quella protesta, ha girato in lungo e largo l’Italia per raccontare il sogno di lavoro di questi migranti che si trasformava in Italia nell’incubo dello sfruttamento. Oggi Yvan collabora con la Flai Puglia in qualità di coordinatore regionale del Dipartimento immigrazione.

 

Ancora nero, ancora schiavi. In verità a Nardò come nel resto della regione, poco o nulla è cambiato sul piano delle condizioni di lavoro e accoglienza per i lavoratori che si spostano lungo la Puglia, seguendo le attività stagionali di raccolta: dalle angurie a Nardò alla raccolta dei pomodori nella Capitanata, dalle olive e ortaggi in Salento alle vigne del Tavoliere. Nero e cottimo la fanno sempre da padrone, così come le baracche malsane per rifugio, fino a casi estremi di vera e propria riduzione in schiavitù. L’ultimo fatto di cronaca pochi giorni fa nell’agro di Apricena, in provincia di Foggia: alcuni rumeni segregati e vessati da connazionali, impiegati nella raccolta dell’oro rosso.

 

Non solo: stando ai dati forniti dalla Direzione regionale del Lavoro per la Puglia, nell’ambito dell’Osservatorio sui Reati nel Settore Agricolo e Alimentare (Orsa), la metà dei lavoratori delle aziende oggetto di ispezioni nel corso dell’anno era a nero. Il numero di attività agricole irregolari per lavoro sommerso oscilla dal 70 per cento del Salento al 54 per cento della provincia di Bari, dal 50 per cento di Brindisi al 40 per cento del Foggiano.

 

Ma ora la Puglia far sul serio: lo dicono gli amministratori regionali, lo ribadiscono i sindacati. Il clima è cambiato, gli strumenti per azioni mirate di contrasto allo sfruttamento ci sono, così come risorse economiche e finalmente un coordinamento intelligente tra istituzioni, forze dell’ordine, enti ispettivi.  La legge regionale n. 28 del 2006, avversata dalle associazioni datoriali soprattutto per l’applicazione degli indici di congruità, sta trovando la sua piena attuazione ed è diventata modello per altri territori e addirittura per una proposta di riforma del mercato del lavoro in agricoltura che sarò presentata a settembre da Flai e Funzione Pubblica nazionale.

 

Punti di forza e criticità dell’agricoltura pugliese. Un settore, quello agroalimentare, fondamentale per l’economia regionale, che sviluppa un Pil da 2,3 miliardi di euro (dato 2011) e che nell’ultimo censimento generale dell’agricoltura vede la Puglia al primo posto per numero di aziende, 275mila (per 1,3 milioni di ettari di superficie utilizzata). E’ regione leader per molte produzioni: dal grano al pomodoro, dall’uva da tavola all’olio, per finire con l’ortofrutta, e tra ufficiali e irregolare vanta il 20 per cento della forza lavoro complessiva del settore primario italiano.

 

Ma spulciando i numeri vengono fuori anche molti dei punti deboli, che fanno dell’agroalimentare pugliese un sistema ancora troppo ancorato ai sussidi pubblici, con una scarsa capacità di concentrazione dell’offerta e con un ricorso insostenibile al lavoro non qualificato e irregolare. In Puglia la dimensione media di un’azienda agricola è di 4,7 ettari, al di sotto dell’omologo valore del Mezzogiorno e dell’Italia. Un nanismo che porta con sé l’impossibilità ad investire su tecnologie e produzioni innovative, scarso potere contrattuale nei confronti delle aziende di commercializzazione e trasformazione, il lavoro quale unica leva per abbattere i costi, con tutto il portato di diritti negati, sottosalario, evasione contributiva.

 

Un ritardo culturale, per dirla con le parole del segretario generale della Flai di Foggia, Daniele Calamita, che in parte si può spiegare con l’età media molto elevata dei conduttori delle imprese e con la scarsissima scolarizzazione: sempre dai dati dell’Istat relativi al censimento del 2011, emerge come in Puglia il 12 per cento dei capi di azienda è privo di qualsiasi titolo di studio e coloro che hanno conseguito al massimo la licenza elementare sono il 44 per cento del totale. Il 44% è anche il dato di quanti hanno conseguito la licenza media. Seppur conservando la sua strategicità nell’economia regionale, anche in conseguenze dell’incapacità di adeguarsi alle nuove Politiche agricole comunitarie, l’agroalimentare pugliese nel decennio 1995-2004 ha subito una perdita di valore aggiunto di 121 milioni di euro.

 

Vecchio e nuovo caporalato. Per molti analisti stanno in queste debolezze le origini dello sfruttamento, del nero, dei ricatti, dell’estrema precarietà che caratterizza il lavoro agricolo in Puglia ma non solo. Una ricerca dell’Osservatorio nazionale della Flai “Placido Rizzotto” ha coinvolto 14 regioni e 65 province con l’obiettivo di tracciare i flussi di manodopera e gli epicentri delle aree a rischio caporalato: ne sono stati censiti circa 80 di cui 36 ad alto tasso di sfruttamento lavorativo, da nord a sud. Perché il caporalato è fortemente diffuso su tutto il territorio nazionale: in Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, ma si è assistito ad una forte esplosione del fenomeno anche al centro-nord, in particolare in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Lazio.

 

Se è vero, come ci dicono i dati Istat, che in agricoltura il sommerso occupazionale è pari al 43%, non è difficile immaginare che sia proprio questo l´enorme serbatoio di riferimento per i caporali. Un esercito di circa 400.000 persone in tutta Italia, di cui circa 100.000 (prevalentemente stranieri) costretti a subire forme di ricatto lavorativo e a vivere in condizioni di grave disagio. Il caporalato in agricoltura ha inoltre un costo per le casse dello Stato in termini di evasione contributiva non inferiore a 420 nilioni di euro l´anno. Per non parlare della quota di reddito (circa -50% della retribuzione prevista dai contratti nazionali e provinciali di settore) sottratta ai lavoratori, che mediamente percepiscono un salario giornaliero che si attesta tra i 25 euro e i 30 euro, per una media di 10-12 ore di lavoro. I caporali, però, impongono anche le proprie tasse giornaliere ai lavoratori: 5 euro per il trasporto, 3,5 euro per il panino e 1,5 euro per ogni bottiglia d´acqua consumata o ricarica della batteria del cellulare.

 

Le battaglie della Cgil contro lo sfruttamento del lavoro, soprattutto in Puglia, vengono da lontano: prima della rivolta di Masseria Boncuri, prima ancora dell’inchiesta di Gatti per l’Espresso, quella degli “Schiavi in Puglia”. Dagli anni ’70 e fino a tutta la prima metà degli anni ’90 sono stati i braccianti indigeni a subire il potere ricattatorio e di intermediazione del caporale, che liberava da vincoli di tipo contrattuale e burocratici gli imprenditori e speculava sul bisogno di lavoro di tanti uomini e donne. Il caporalato svolge questa funzione di cucitura economica da un lato e sociale dall’altro: lo scomparso Pietro Alò, brindisino di nascita e deputato del Pci nella XII legislatura, nel suo saggio “Il caporalato nella tarda modernità” ricorda come questo fenomeno sia stato in grado di radicarsi in maniera così forte proprio grazie alla capacità di sfruttare abilmente un duplice bisogno: “da un lato quello delle aziende di rispondere alle pressioni competitive sempre crescenti del mercato e dall’altro quello dei braccianti di ottenere un salario, per quanto modesto, e di accedere al contempo alle tutele assistenziali e previdenziali. Spesso senza troppo curarsi se per vie legali o illegali”.

 

Ritorno al collocamento pubblico. Per Alò il caporalato non è tanto il frutto dell’arretratezza del sistema agricolo, piuttosto un prototipo della “tarda-modernità”, anticipa la destrutturazione completa del mercato del lavoro, spinge all’estremo il sogno di flessibilità delle imprese. E proprio da qui, da un ritorno al “collocamento pubblico”, che partirà la citata proposta di legge che Flai e Funzione Pubblica presenteranno a settembre. Rilanciare i servizi per l’impiego e le politiche attive per l’occupazione, punendo gli abusi e premiando le aziende virtuose. Un nuovo mercato del lavoro in agricoltura che prende a modello quanto si sta sperimentando in Puglia in questi anni. “Perché quel che abbiamo ottenuto, al di là della sensibilità politica di chi governa oggi la Regione – ricorda Giuseppe Deleonardis, segretario generale della Flai Puglia – è il frutto di anni di lotte, spesso condotte in solitario, inascoltati dalla politica e dalle istituzioni”.

 

Perché le manifestazioni contro i caporali in questa regione, dal Tavoliere al Salento, risalgono a oltre trent’anni fa. Magari per condizioni di insicurezza nel trasporto dei braccianti – quanti incidenti e quante vittime ha contato la Puglia negli anni... – o in conseguenza delle prime frizioni tra braccianti locali e immigrati, che accettavano condizioni salariali ben peggiori pur di lavorare. Le cronache dei giornali di allora parlano di denunce inascoltate e di auto di sindacalisti incendiate.

 

Quando l’Italia scoprì gli schiavi dell’oro rosso. Certo, la grande attenzione dei media ha innegabilmente aiutato il sindacato nelle sue rivendicazioni: nel 2005 la denuncia dell’ambasciata sulle condizioni di schiavitù cui erano costretti tanti cittadini polacchi nelle campagne della Daunia, fino a casi scomparse sospette. Quindi, ad agosto 2006, la dirompente inchiesta di Gatti, che in realtà aveva un precedente importante che non produsse lo stesso effetto nell’opinione pubblica: due anni addietro un lavoro di indagine del tutto simile lo curarono Giorgio Sturlese Tosi e Massimo Sestini per Panorama. Anche allora nel titolo ricorreva la parola schiavi. I giornalisti narrarono non solo storie di violazioni contrattuali e diritti negati, ma descrissero una realtà ben peggiore, in cui padroni e caporali senza scrupoli e bene organizzati sottoponevano a condizioni di vita offensive della dignità umana centinaia di lavoratori provenienti in gran parte dall´Africa e dall´Europa dell´est. “A Cerignola, in provincia di Foggia – si leggeva nell´articolo dal titolo ‘Tra gli schiavi dell´oro rosso”, pubblicato il 3 settembre del 2004 sul settimanale del gruppo Mondadori – se vuoi raccogliere i pomodori devi metterti tra l´edicola e il bar. Se vuoi farti assumere per la vendemmia, invece, devi andare tra la fontana e le poste. In ogni caso si è in balia di caporali che all´alba decidono chi prendere e chi no. Pagando 4 euro per ogni cassa da due quintali”.

 

Sarà stata la novità della forma del reportage, con segmenti di vita vissuta dallo stesso giornalista sotto le mentite spoglie di un bracciante extracomunitario; saranno stati gli elementi di suggestione richiamati nello scenario della vicenda – la terra di Giuseppe Di Vittorio, di Padre Pio e che ha votato Nichi Vendola –: il risultato è che l´inchiesta di Fabrizio Gatti sullo sfruttamento del lavoro immigrato nelle campagne della Capitanata sortì un clamore fragoroso. A ottobre la manifestazione nazionale di Cgil Cisl Uil a Foggia con  la presenza di Epifani, Bonanni e Angeletti, sotto lo slogan multilingue “non al lavoro nero – dignità al lavoro”. Sempre ad ottobre del 2006 il varo della premiata in sede comunitaria legge regionale 28. Così, se nel 2005 i lavoratori immigrati iscritti negli elenchi Inps di Foggia erano solo 3mila, nel 2007 sono saliti a 14.600. Sono emerse migliaia di posizioni per paura delle denunce e dei controlli, ma non è cambiata la sostanza dello sfruttamento: sempre cottimo, sempre condizioni di accoglienza a dir poco estreme, lavoratori registrati per poche giornate rispetto a quelle effettivamente lavorate. Così se i braccianti italiani che raggiungono in numero minimo di giornate utile a percepure le indennità di disoccupazione è il 76%, se si analizzano i dati riferiti ai lavoratori stranieri scende al 23%. Un dato clamorosamente falso, dietro il quale si annida elusione e danno all'erario e alle casse della previdenza.

 

Una nuova stagione di lotte. Oggi, a distanza di sette anni dalla sua promulgazione, dopo essersi scontrata con le potenti lobby economiche, politiche e burocratiche al servizio dell’imprenditoria agricola, quella legge ha trovato una sua (quasi) piena attuazione, con l’attivazione dell’Osservatorio e la definizione degli indici di congruità. Negli anni, sempre grazie alle campagne di sensibilizzazione della Cgil e della Flai, in Italia il caporalato è diventato reato penale pur con alcune farraginosità per l’applicazione della norma (dall’entrata in vigore le persone denunciate o arrestata sono solo 42, la metà di queste nel centro-nord); in Puglia sono state definite le cosiddette “liste di prenotazione” per aggirare l’alibi delle imprese sul mancato funzionamento dei centri per l’impiego e l’impossibilità di individuare manodopera se non attraverso illecite intermediazioni; si è arrivati ad un coordinamento, “una sorta di intelligence” per dirla con le parole dell’assessore regionale al Lavoro Leo Caroli, per unificare e potenziare i servizi ispettivi. Senza controlli se non sporadici, con scarso personale a fronte di un territorio vastissimo, vigeva una sorta di garanzia di impunità che rendeva più conveniente sfruttare e ricorrere ai caporali che rispettare la legge. Oggi, con il tavolo interforze che coinvolge prefetture, carabinieri, fiamme gialle, direzione del lavoro, Inps e Inail, si unificano le azioni per arrivare a “colpire al cuore” le imprese che violano le norme: la “pena” – oltre quelle previste dal codice – sarà la revoca di ogni contributo pubblico. Ora si attendono i risultati perché, come afferma il segretario generale della Cgil pugliese Gianni Forte, nella terra di Giuseppe Di Vittorio “prima ancora dei diritti occorre restituire piena dignità a migliaia di uomini e donne”.

 

Lello Saracino


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